Rassegna stampa: L’Arena 16 aprile 2015

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2000 - ZANUS

Yoga sotto canestro. Il messaggio di «Zus»

I suoi piedi sono lunghi e nodosi, non riescono a nascondersi nelle mani. Sono stati strumenti di lavoro, adesso si travestono da carta d’identità: i chilometri si vedono ma c’è ancora parecchia strada da fare. I piedi di Cristiano hanno vissuto chiusi in scarpe da basket, oggi preferiscono stare liberi. Giusto per assecondare l’indole di chi li porta in giro. Ieri pestavano assi di legno, oggi finiscono incrociati sotto le gambe di un uomo dalla schiena lunga e dal sorriso buono. «Per me è un appuntamento quotidiano in cui faccio un viaggio dentro me stesso scoprendo le mie reali potenzialità».
Parliamo di yoga con Zanus Fortes: team manager della Tezenis ma anche giocatore di un basket vicino eppure estinto. Parliamo di equilibrio, di «centrare» la vita, di darsi obiettivi. E per parlare di questo, partiamo dalla fine. «L’ultima partita di serie A l’ho giocata a Rimini sbriciolandomi il metacarpo in tre pezzi. Poi l’anno dopo sono sceso di categoria a Rovereto, lì ho avuto un altro problema fisico e a dicembre ho detto basta».
COSA FARÒ DA GRANDE? E adesso? La domanda che nessuno sportivo vorrebbe mai porsi. L’horror vacui che coincide con la sveglia del primo giorno senza allenamenti. «Ci sono atleti che appoggiano tutta la propria vita allo sport e questo ti condiziona pesantemente quando non devi più pensare 24 ore al giorno al gesto atletico. È anche una questione di metabolismo che cambia, l’attività fisica lo accelera ma quando non hai più bisogno di un certo tipo di energia devi essere in grado di cambiare anche alimentazione». Per lui, però, non è stato un problema perché aveva già deciso cosa fare dopo, aveva già capito che lo yoga sarebbe stata la sua vita e il suo lavoro. Che la mente avrebbe preso il sopravvento sul fisico. «L’incontro con lo yoga è arrivato a Ravenna quando Giorgio Montano, il mio allenatore dell’epoca, mi portò da un personaggio che curava anche cose abbastanza pesanti con lo yoga e lo shiatsu. Da lì sono rimasto folgorato dall’approccio olistico che guarda l’essere umano, e i problemi, nella sua globalità e non nello specifico. Mi piace questa visione che vuole un allontanamento dal problema piuttosto che uno scavare sempre più in fondo a esso, perché preferisco risolvere la causa del problema più che il problema stesso».
Un modo di vedere la vita che potrebbe essere molto utile anche in ambito sportivo dove la giusta distanza tra le cose è sempre impossibile da trovare, vivere in una bolla non aiuta a essere lucidi. «Nello sport professionistico l’aspetto mentale è sicuramente poco curato rispetto a quello fisico – sottolinea «Zus» -. L’ex cittì della nazionale azzurra di volley, Julio Velasco, diceva che le facilitazioni di cui godono i giocatori professionisti nel quotidiano sono deleterie per il cervello perché impedisce loro di pensare. Io credo che anche il cervello debba essere allenato».
IL CENTRO DI GRAVITÀ. L’equilibrio come obiettivo primario. Curioso, e affascinante, che a parlarne sia uno dei cavalieri che fecero l’impresa, uno di quelli che si è abbeverato alla fonte della pazzia in quell’anno di grazia 1999. «Io ero folle in una squadra di folli – racconta il team manager della Tezenis -. Tanto che l’idea di giocare la finale scudetto con i capelli rossi, un’idea malsana nata in una serata sicuramente poco sana. Ecco, di certo la follia fu alla base dei successi ottenuti quell’anno perché ci portò a fare cose che non pensavamo di essere in grado di fare». La stella di Varese, il decimo scudetto vinto in finale contro Treviso. Il sangue di Pozzecco con il naso distrutto da Nicola, la faccia scanzonata di Meneghin, la calma olimpica di Recalcati in panchina. E, poi, quella bolgia infernale che un tempo fu Pala Ignis.
«Entravamo in campo a Masnago e venivamo storditi da migliaia di trombe – ammette Zanus Fortes -. Una volta ho voluto fare un esperimento: mi misi ad urlare ma non sentii la mia voce. Incredibile!». No, incredibile cosa riuscì a combinare quella squadra. «La cosa pazzesca di quell’anno fu la capacità di creare entusiasmo. Noi, dopo la partita, andavamo a mangiare sempre nello stesso posto e lì ci seguiva la metà del palazzetto, poi qualcuno tirava fuori la chitarra e si improvvisava un concerto. E finito quello, via a Milano per fare serata. Quell’anno non è stato fatto nulla di quello che serve di solito per vincere. Eppure abbiamo vinto». Un costante e propedeutico elogio della follia. «I matti fanno canestro a prescindere. Di solito, la mattina della partita, si va sempre a tirare al palazzetto per testare i canestri, noi non andavamo mai a Masnago a rinnovare questa pratica. Mai! Solo quella “macchinina” di Sandrino De Pol si faceva un’ora e mezzo di tiro nel palazzetto vuoto». Equilibrio, appunto, ma anche tanta costanza. «Perché i veri campioni sono quelli che solo attraverso quest’ultima riescono a esprimere il proprio talento». E questo ragazzone di Aviano il suo talento lo esprime tutti i giorni insegnando alla gente come stare meglio. Lui che, pur togliendosi lo sfizio di stoppare un certo David Robinson (sì, proprio l’Ammiraglio campione NBA in carica), è riuscito a non farsi stoppare dalla vita e ha tirato fuori dal canestro tutta la sua sensibilità di uomo dai piedi lunghi e dall’anima profonda.

Francesco Costantino