Crespi: «Ecco come guido i miei giocatori imprenditori»

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CRESPI LIUZZO

 

Di seguito le dichiarazioni di Marco Crespi, capo allenatore della Tezenis Verona, durante il secondo B2B della stagione nella sede di Agsm, sul tema «Sense of urgency e aspetto motivazionale nelle aziende». L’incontro è stato moderato da Cristiano Liuzzo.
«Il coach di pallacanestro non è la persona che sbaglia un cambio o quello che si alza dalla panchina e si agita. Il mio maestro, nell’essere guida di un gruppo, è stato Boscia Tanjevic. Uno che ha vinto tanto e allenato tre nazionali. Di quel che mi ha insegnato come allenatore non ricordo un solo dettaglio tecnico o uno schema. Tanjevic mi ha soprattutto insegnato a sussurrare ai giocatori. Quando si allena in uno sport di squadra si fanno grandi discorsi. Non esiste la squadra ma un gruppo di imprenditori di se stessi, di giocatori che hanno un contratto anche di una sola stagione in cui l’essere imprenditori è proprio il vivere quell’annata perché dal loro rendimento potranno ottenere magari condizioni più vantaggiose nella stagione successiva. Il senso della maglia è assolutamente retorico ed assolutamente falso. Vedo calciatori a gennaio cambiare squadra e la domenica dopo aver segnato correre sotto la curva ad esultare baciando la maglietta.

Quando avevo 16-17 anni il fidanzato della sorella di un mio compagno giocava a calcio in Serie C al Sud. Una volta ci raccontò di come, dopo la prima amichevole lui andava sotto la curva dei suoi tifosi baciando la maglia. “Così per i primi tre mesi mi sono sistemato”, diceva. Quando inizio ad avere un gruppo di persone comincio la stagione con un gruppo che non è una squadra. Spontaneamente nasce l’idea di un gruppo di persone di andare al bar a bere una birra o al ristorante. Andare fuori a mangiare è un’idea che nasce spontaneamente, la struttura è semplice. Non ci sono gerarchie. Per raggiungere un obiettivo invece una squadra ha bisogno di coagularsi. Contemporaneo è pensare che il mio gruppo di imprenditori diventi una squadra attraverso l’appartenenza al prodotto, vale a dire il modo di stare in campo. Dove ognuno deve essere coinvolto per autonomia, responsabilità e chiarezza dei ruoli.

Importante è trasmettere al giocatore come la qualità del prodotto aiuti ad alzare la mia qualità, esaltate nel nostro modo di giocare così da guadagnare per il giocatore un contratto a certe condizioni favorevoli per la stagione successiva, un innalzamento del compenso economico come la possibilità di giocare 15 partite rispetto alle 10 del campionato prima.Da gruppo si diventa squadra attraverso l’appartenenza al prodotto. Quando un giocatore firma un contratto salariale ho l’abitudine di farne io uno tecnico spiegando perché l’abbiamo scelto e facendogli capire che adesso certe situazioni di gioco per la sua area saranno di sua competenza. È importante l’area di miglioramento, meglio che vivere in maniera parastatale.

È stato uno psicologo israeliano, Reuven Feuerstein, un genio, che ho avuto la fortuna di conoscere, ad introdurmi ad un metodo preciso e ad insegnarmi molto. La figura-chiave era quella del mediatore. Lui sosteneva che non è un gioco di domande e risposte essere mediatore ma che una delle forme della mediazione è aiutare a raccogliere dei dati per poi farsi delle domande. Dire ad un giocatore nella seduta video quel che doveva fare serve a ben poco. Dopo posso anche riferire al proprietario quel che ho fatto, ma certo non mi sono comportato da allenatore.

Faccio una digressione. Ci sono schemi per portare al tiro un giocatore, utilizzando dei blocchi per permettergli di andare al tiro mentre la difesa avversaria prova ad impedirlo. Importante non è avere delle regole quanto dotare di utensili i miei giocatori. Perché la squadra avversaria cercherà di impedire che il giocatore possa tirare, ma quello decisivo non è il primo sforzo. L’importante è far diventare decisivo il secondo sforzo, attaccando la tua reazione al mio attacco. Gregg Popovich, il grande allenatore dei San Antonio Spurs, dice che è proprio il secondo sforzo a fare la differenza fra una squadra e l’altra.

Il “senso di urgenza” nasce dal discorso di un mio giocatore anni fa in una riunione. Sul senso di urgenza ha scritto dei libri John Kotter, dell’università di Harvard, uno che ha fatto tanta formazione fra le aziende. Secondo lui nello sport la pancia piena e vuota condiziona le perfomances. Pensate a quel che succede in Italia. Perdi una partita e l’allenatore non capisce nulla, quel giocatore non va bene, si fanno le nomination stile Grande Fratello. Personalmente dopo una grande partita, giocata bene ed essendo stata una gara con contenuti emotivi altissimi andavo all’allenamento con un certo compiacimento, un atteggiamento però totalmente sbagliato se devo guidare un gruppo. Tanjevic mi diceva sempre che nell’allenamento successivo ad una vittoria bisognava dare ai giocatori due nuove proposte. E dopo una sconfitta non cambiare nulla. Dopo una vittoria bisognava pensare ad un allenamento che fosse il più lungo della stagione, quindi essere ancora più esigenti.

Sento anche parlare di leader, ma in un club ci sono diverse aree e quel che è importante è che io devo avere la stessa visione ma soprattutto con una guida che deve essere trasmessa dai responsabili delle diverse aree. Non ci può essere in un club una persona sola che viva il senso di urgenza.
Importante che i miei giocatori abbiano una visione, che in generale nel mondo io vedo mediocre perché non c’è una visione di appartenenza ma la mediocrità del “così fan tutti” o la difesa dei propri spazi di potere.

Avere una visione è parlare ai giocatori in modo diretto. Vi faccio un esempio. Nella stagione di Siena dopo una stagione iperpositiva, chiusa al secondo posto, perdiamo gara-1 dei playoff con la settima con cui eravamo stati abbinati. In quintetto partì un giocatore giovane, che giocò una gara anonima a differenza di quello più esperto partito dalla panchina che giocò bene. Il giorno dopo li chiamai entrambi nel mio ufficio, parlai a tutti e due e dissi loro che a me interessava il prodotto finale, che dovevano essere loro a decidere se in quintetto in gara-2 dovesse partire il ragazzo giovane o l’altro. La mia decisione fu quella di far decidere loro entro un quarto d’ora. Arrivarono e mi dissero che dopo una stagione in cui avevamo battuto tutti e perso una sola partita era giusto continuare sulla stessa strada.

In Italia ci sono gli scettici e quelli dei “no, no”. La pallacanestro cambia, i tempi di esecuzione si riducono. Io dico che la pallacanestro è per quelli di due metri che sanno fare tutto e che un giocatore sopra i due e dieci farà sempre più fatica.

Golden State ha fatto una cosa storica. Sotto 2-1 nella serie finale con Cleveland ha tolto il pivot titolare, uno da 27 minuti a partita, e giocato senza centro. Sbagliatissimo dire “eh, ma io sono abituato così” o che il giocatore non debba pensare.

Ci sono poi quelli dei “no, no” e l’Italia è un grande esempio. Di quelli che devono mantenere i centri di potere senza cambiare nulla. Quelli che spingono per una prestazione medio-bassa così me la cavo. Il senso di urgenza però deve essere comune, altrimenti chi lo persegue passa solo per uno che rompe le scatole.

All’inizio del mio intervento si parlava di sogni. Nonostante veda la mediocrità che ci circonda, voglio comunque pensare che si possa arrivare ad una cultura del cambiamento».